UGGIOLO MARITO BISLACCO

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RACCONTO di Matteo Cellini
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Uggiolo marito bislacco non disse nulla alla moglie, Uggiolo anche al figlio lo tacque, poiché, condividere alcuno, chi fosse, d’una sì lieta notizia era dividerla in mezzo, sperderla invano.
Principiò così una nuova vita che aveva tutte le sembianze della precedente: alle sei levarsi nel freddo e nella bruma tutta la famiglia per meglio far fruttare l’ettaro scosceso alla montagna, il campo tutto sassi e zolle dure. Prendersi un pranzo di cose poche e sane, un riposino breve, nulla, uccidersi nel vento, uccidersi nel gelo. Trascorrere una vita come bestie, durare la stessa fatica, cibarsi di cose medesime, e in più sopportare mille pesanti pensieri.
Trovarsi distrutti la sera distesi alle otto col giorno ancor dolce senza la forza nemmeno per una preghiera. Produrre alla fine quel tanto che basta per tre. Consumarsi per trascinare un giorno un mese un anno ancora una vita consumata.
Uggiolo marito bislacco non disse nulla alla moglie, Uggiolo anche al figlio lo tacque. Ma ogni tanto la bocca tradiva una linea, s’univa alle gote, in una fossetta appena capiente, s’univa alle rughe degli occhi, qualcosa come un sorriso, qualcosa come una smorfia, e Mafaldina vigile accanto, vigile a tutto, in uno squittio, prorompeva:
- “Uggiolo che ridi?”,
- “Sì, padre,” aggiungeva Carminio “…anche nei campi ti viene quel viso…è successo forse qualcosa?”
- “…È che pensavo al vitello che è nato da poco, alla faccia che ha fatto trovandosi al mondo così d’improvviso…”
- “Non durerà un altro mese, padre. La stalla è uno schifo e il freddo ci entra senza permesso, la biada è poca, non basta per tutti,”
- “Pensi che a me basti questo piatto dove si contano in un attimo i fagioli, trasparente come acqua? Con la fantasia ci tocca aggiungere il sale alle pietanze, e il sapore, e il gusto…non ce l’ ho con te Mafaldina, so che fai il possibile…”
- “Padre non volevo…”
- “Il vitello dovrà sforzarsi se vorrà sopravvivere, lottare: come lottiamo tutti”.
Uggiolo in quelle domande improvvise vedeva fermenti rivoluzionari. Lui stesso una volta per una felice combinazione in mano si era trovato più grano e frumento dai campi, più mele e susine, e aveva venduto, senza pensarci, tutto alla fiera e con quel denaro un vestito, meno frusto e gualcito del proprio, per la domenica e tutte le feste si era trovato compagno la sera, con un pugno di sigarette e caramelle in mano, nel suo ritorno a casa. E Mafaldina, per se stessa, aveva speso il resto del denaro. Ma nelle piogge torrenziali che seguirono, che sembravano cascate, il campo fresco di semenza ci affogò l’annata, e più non si riebbe, e non servirono le infinite cure e le snervanti attese, e come una madre che diffidi non mostrò la propria prole. Uggiolo dovette rivendere il proprio vestito al mercato, la moglie l’essenze, la spilla verde smeraldo, lo scialle con le fronde e non ci fecero che un quarto dell’antico ricavato. E quasi ne morirono di fame.
Una simile esperienza lo stipite dei suoi ricordi aveva inciso. E tutti i giorni che da lì seguirono ne furono condizionati. Mafaldina l’aiutò il tempo a scordare le sofferenze, le fatiche, le privazioni e a ripensarci, come chi sfiori la morte senza capirlo davvero, adesso, quasi ne rideva. Uggiolo invece come una testata d’angolo la considerava, la prima pietra d’un palazzo.
Non si riteneva miracolato: ricordava bene i digiuni e le ore buie sotto la pioggia e l’albe che in piedi da un pezzo sudava, sapeva a memoria le piaghe alle mani e i calli spruzzati di sangue, non avrebbe più scordato l’umiliazione di chiedere ai vicini castaldi e fattori, un po’ qua e un po’ là, qualcosa che da solo non poteva avere.
Uggiolo in quelle domande improvvise vedeva fermenti rivoluzionari, desideri che come mine si intromettevano tra le zolle riverse, nei riposi brevissimi sotto il faggio, nelle cucchiaiate rumorose dei pranzi, negli istanti prima di dormire, pronte a far saltare tutto in aria, pronte a distruggere una vita che nella propria quotidiana sofferenza trovava una disillusa sicurezza. E la fatica nei campi tutta la sua figura aveva disegnata, il sole e le sferzate del vento ramificate crepe vi avevano aggiunte in un lavoro indefesso che il tempo, quarantanove anni, continuava tacitamente a commissionare. Non conosceva il numero dei giorni che l’avrebbero riportato alla terra, ma sapeva che in ognuno di essi, senza eccezione, egli avrebbe fatto la medesima cosa, che egli avrebbe lavorato sino a cader morto la sera.
Uggiolo non disse nulla alla moglie, Uggiolo anche al figlio lo tacque. Condividere alcuno, chi fosse, d’una sì lieta notizia era dividerla in mezzo, sperderla invano; e non solo: era sovvenzionare una rivoluzione e rovesciare la quotidiana difficile routine.
Il degrado e la consunzione colpivano tanto le persone e gli animali quanto la vecchia casa e la stalla. Ma se per le persone l’esempio, la condotta, gli insegnamenti dello stesso Uggiolo indicavano l’impervia via da seguire, l’umidità eccessiva, il freddo, gli spifferi e la scarsità di vettovaglie guidarono, man mano, gli animali ad una morte prematura. E non soltanto gli ultimi nati, ma anche le madri, e i padri, come foglie in autunno, abbandonarono quella vita di stenti. Fu sufficiente un inverno più rigido del consueto, appena più difficile da sopportare, a trasformare le stalle in obitori. Carminio fu preso dallo sconforto, la miseria spicciola di cui disponevano le sue giovani mani scomparve, alla propria fidanzata non riuscì a offrire che baci e promesse. L’equilibrio su cui reggeva tutta la famiglia andò in frantumi. Il destino toccato alla stalla, come una malattia contagiosa e letale, si agitò in ogni angolo del podere. L’esili braccia di Mafaldina sostituirono gli arti instancabili delle bestie, i pranzi si ridussero a pane raffermo con vino, e consumati nei campi s’esaurivano in un silenzioso respiro. La giornata di lavoro s’allungò a dismisura, e nemmeno il sole riuscì a contenerla. Tutti gli sforzi furono portati sui campi, quei pochi ettari rappresentavano, con la coltura di grano e mais, coi tre filari di viti, la risorsa più importante di tutto il podere. Ma la povera moglie non possedeva il dono dell’ubiquità, e il piccolo orto per l’uso quotidiano e gli animali nell’aia vennero trascurati, i pomodori morirono sui gambi e le patate non conobbero la gioia d’una carezza solare. Le galline denutrite sollevarono fino al cielo il loro chiassoso disperato disappunto scorazzando impazzite e ovunque deponendo pallidissime uova. Il tempo mancò anche per la pulizia dei vestiti e il ricambio di biancheria.
Furono giorni durissimi, insopportabili.
Uggiolo come un condottiero demotivato e senza argomenti di fronte all’esercito il giorno che attende l’ultimo scontro aveva parlato alla moglie ed al figlio, alla casa, ai conigli e alle galline, ai campi e alle piante. Aveva riferito le parole del veterinario, spiegato le cause della morte degli animali, e, dopo una pausa, annunciate le difficoltà che sarebbero sopraggiunte, le privazioni, le rinunce. Aveva dichiarato che le bestie morte non sarebbero state riacquistate, e che loro stessi, insieme, le loro braccia e la loro volontà, avrebbero sopperito alla mancanza di quella forza. Rispose con un abbraccio alle lacrime di Carminio insieme con queste parole: “Può sembrarti ingiusta e stupida la mia decisione, ma non credo che lo sia, per due motivi. Quel poco di denaro che abbiamo da parte è già destinato alla nostra sopravvivenza, e poi non basterebbe nemmeno per un solo animale. Ma, cosa più importante, da questa difficile situazione imparerai cosa significa governare e tirare avanti un podere. Per riuscire a comperare tra qualche mese nuovi animali non soltanto dovremo sopperire alla loro mancanza, ma trovare anche il modo di guadagnare qualcosa in più. Senza animali nella stalla, il denaro che serviva alla loro manutenzione è denaro guadagnato, e la biada che li nutriva è biada da vendere…”.
“E poi saremo di nuovo daccapo!!”, disse tra le lacrime Carminio, “la stalla è piena di falle, quando piove si allaga, è umida, gli animali che ci metteremo faranno la fine di questi…”, “Non faranno la stessa fine. Dovremo sceglierli attentamente, sceglierne come il vecchio Gondrano, o la vecchia Giunone, che vissero tutta la loro vita accanto a noi, sempre presenti, seguendo il nostro esempio, sopportando la stessa fatica. La stalla ha bisogno di riparazioni come la casa in cui viviamo, nello stesso modo. Ma noi non moriamo, non ancora..”.
Carminio accolse la disposizione paterna come un soldato semplice un ordine vitale caduto dalle più alte gerarchie, obbligato, benché non lo comprenda o il suo animo addirittura lo ripudi, ad eseguirlo a costo della propria vita.
Mafaldina dopo un mese di quella vita che non le apparteneva si ammalò. E non sarebbe stato nulla di grave se si fosse subito messa a riposo, ma il timore di dirlo ad Uggiolo, e il pensare le spalle del povero figlio cariche anche della propria fatica la costrinsero a tacere, finché un tonfo lieve, nel gelo mattutino, non parlò per lei. Carminio fu quasi contento. Pensò che suo padre si sarebbe arreso, che un’altra soluzione si sarebbe trovata.
Pensò male.
Uggiolo divise semplicemente il lavoro per due anziché per tre, sacrificò alcune parti del terreno, quelle che rendevano meno, e lo stesso pomeriggio, assieme a Carminio che incredulo e sgomento lo seguiva, tornò nei campi. Il letto di Mafaldina fu spostato nella sala da pranzo, accanto al camino. Da sola provvedeva al riscaldamento, al proprio nutrimento, alle proprie cure.
Uggiolo anche in quei momenti drammatici decise di non dire nulla, di non rendere nessuno partecipe. Vedeva la moglie morire pian piano, spegnersi, il proprio figlio come un vecchio, ricurvo su se stesso, deperito, sporco, col segno livido di una frustata meritata un giorno che voleva abbandonare tutto, fuggire, e se stesso vedeva, un ammasso di pelle e di ossa, e non aveva nemmeno il coraggio di guardarsi il volto allo specchio, per paura di non riconoscersi.
Sapeva che sarebbe successo tutto questo, sapeva tutto sin dall’inizio. Bisognava resistere e continuare. L’inverno volgeva alla fine, un nuovo equilibrio, assieme alla primavera, sarebbe fiorito.
No.
Non l’avrebbe utilizzata, quella vincita.
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L'autore: insegnante di lettere, è nato nel 1978 e vive a Urbania. Nel 2013 ha pubblicato per Fazi Editore il romanzo Cate, io.


L'immagine di copertina "Who's gonna ride your (black and white) wild horses" di  Carljones è coperta da licenza CC BY-NC 2.0 ed è disponibile alla pagina  http://www.flickr.com/photos/_belial/299391588/

Commenti

  1. Non a caso quì la si chiama tutti "Maestro", caro signor Caligolas.
    Racconto eccezionale.

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  2. Senza fiato. Bellissimo. Non mi è piaciuto il finale... Grazie comunque di questo...

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  3. Un modo di scrittura davvero particolare e avvincente. Divertente la scelta dei nomi. Molto interessante.

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  4. Inserisco un commento inviatoci tramite e-mail da Marco Bertoli:
    "Ho conosciuto un uomo identico nello spirito a Uggiolo, una persona talmente rassegnata alle disgrazie della vita da aver timore di qualsiasi cambiamento in meglio, quindi il racconto mi ha piacevolmente stupito. L'attesa del momento giusto per mutare le sorti della famiglia ha in realtà il volto di una sentenza di morte per i componenti della medesima. Una scrittura forte, espressiva che rammenta quella del Verga e di Pirandello".

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  5. Molto interessante poter mettere le mani su questo racconto dopo aver letto il romanzo Cate, io. Lo stile è molto diverso, ma la bravura la stessa. Fa sorridere il linguaggio baroccheggiante voluto da Matteo per questo breve testo. E l'ironia, poi! Un racconto grandioso.
    Lucia Chinelli.

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  6. Finalmente uno scrittore che ha capito che una storia diventa buona solo se si sanno usare le parole.
    Alceo Pontellini

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  7. Inserisco un commento inviato tramite e-mail da Paola Mimmi:
    "Racconto molto particolare, per il modo in cui l'autore ha usato le parole e le ha ripetute nel racconto.
    Complimenti per la trama molto dura ma penso anche reale in un contesto contadino di altri tempi".

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  8. Creativo. Sviluppandosi come una filastrocca lascia senza fiato. Meriterebbe un finale all'altezza di quanto lo precede. Federico Torresan.

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  9. Un modus narrandi veramente particolare e accattivante per raccontare una storia tragicomica che forse non è poi del tutto fantasiosa.
    Laura Calderini

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  10. La particolarità di linguaggio affascina, e porta un personaggio che bene o male nella vita reale conosciamo tutti, ad avere paura dei cambiamenti, per paura di avventi disgraziati. Un racconto tragicomico che ci proietta nella vita reale, tragicomica di per se. Complimenti a Matteo Cellini, che racconta con delicatezza e a mo di filastrocca le sorti di Uggiolo
    Luca Guarino

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  11. Stupendo.
    Il migliore racconto che ho letto finora su questo sito.
    Mi è piaciuta molto la struttura linguistica e il modo di narrare.

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  12. Leggendo questo racconto, mi è tornato alla mente il film di Zeffirelli: L'albero degli zoccoli. Il racconto (come il film) genera patos, è scritto molto bene ma non ho gradito il finale che stride con quell'insopportabile realtà; speravo in un lieto fine. Arianna Fabris

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