MONFERRATO DI SOLE E DI LUNA

Racconto di Elso Avalle, vincitore del 3° contest "La Lettera Matta"
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Una decina di case raggruppate intorno alla sommità della collina e qualche cascina di lato alla strada che, con ampie curve, sale dal fondovalle. Il Bric, frazione di Santa Maria, è tutto qui. Dal Bric a Santa Maria, per la strada normale, ci sono tre chilometri.
Negli anni ‘50, al Bric nessuno aveva ancora l’automobile, solo due famiglie potevano permettersi il  calesse, qualcuno aveva la bicicletta, ma la maggior parte si muoveva a piedi. Molto praticato era il sentiero che, scendendo la collina, attraversava i prati e risaliva a Santa Maria in linea d’aria. Le donne lo percorrevano la domenica per andare a messa e fare la spesa per la settimana. I bambini lo percorrevano tutti  i giorni per andare a scuola. Con il bel tempo era una passeggiata; diventava più complicato con la pioggia o la neve. I genitori non avevano tempo di accompagnare i figli a scuola. Lo facevano solo in rarissime occasioni come il primo giorno della prima elementare, oppure la mattina successiva ad una abbondante nevicata. In questa occasione, il padre di uno dei ragazzi si caricava sulle spalle le cartelle dei più piccoli e, trascinando gli scarponi nella neve fresca, tracciava la strada; lo seguivano i più grandicelli e via via i più piccoli che si trovavano così il sentiero battuto.
Non tutta la gente del Bric andava a piedi. Come si diceva, due famiglie possedevano il calesse, e una in particolare, quella del sur Giuan, era realmente benestante. Il sur Giuan non andava mai a piedi. Lui aveva due cavalli, un baio purosangue che attaccava solo al calesse, ed uno più robusto per i traini più pesanti. Se doveva andare al mulino a far macinare il grano o a comprare il verderame e lo zolfo, usava il carretto a molle. Si trattava di un carretto con le sponde alte e con una struttura più snella e armoniosa rispetto ai carri da trasporto pesante. Era dotato di balestre come le carrozze che permettevano di assorbire, sia pur parzialmente, i sobbalzi delle strade che a quel tempo non erano certamente asfaltate. Seduto sulla panca che attraversava la parte anteriore del carretto, il sur Giuan sembrava un monumento sul suo piedistallo. Grande e grosso, teneva saldamente le redini con gli avambracci appoggiati sulla pancia debordante. Serrava tra i denti un grosso sigaro e mandava regolari nuvole di fumo che sembrava passasse il tramway.
Per gli spostamenti più lunghi e quando prevedeva di dover trasportare dei piccoli pesi, il sur Giuan usava il calesse. Il suo era molto elegante, le ruote gialle e rosse con i cerchi di gomma piena, la calottina nera retrattile, il sedile e lo schienale di pelle imbottiti. Le balestre, molto morbide, consentivano un viaggio notevolmente più confortevole rispetto al carretto a molle. Quando usciva con il calesse era sempre vestito elegantemente. Vuoi che andasse ad un funerale oppure al mercato del giovedì, indossava l’abito nero e il borsalino pure nero a tesa larga. Teneva sempre l’enorme giacca sbottonata in maniera da mettere in evidenza la lunga catena d’oro che gli circumnavigava la pancia da un taschino all’altro del panciotto. Nel taschino di destra, alla catena era appeso un Roskoff a cipolla appena un po’ più piccolo di una sveglia da tavolo. Quando era solo sul calesse aveva l’accortezza di sedersi esattamente al centro del sedile, in maniera che il suo ingente peso non sbilanciasse l’equilibrio della carrozzella. Le poche volte che usciva in compagnia della moglie piccola e magra, doveva inevitabilmente sedersi da un lato. In queste occasioni, il calesse, si inclinava vistosamente sul lato in cui era seduto il sur Giuan, che rimaneva sprofondato, mentre la moglie  veniva ad ogni sobbalzo proiettata in alto e doveva aggrapparsi al montante della carrozzella per non rovinare addosso al marito.
I cavalli del sur Giuan erano addestrati a due tipi di comando: attraverso le redini e con comandi a voce. Le redini, opportunamente tirate, servivano per farli svoltare a destra o sinistra. I comandi a voce per partire e  fermarsi erano i classici yoo e loo; per accelerare o rallentare, invece, i comandi consistevano in due bestemmie. Ripetendo più volte la relativa imprecazione, il sur Giuan riusciva a raggiungere la velocità desiderata. In pratica le bestemmie avevano la funzione che hanno l’acceleratore e il freno sull’automobile.
Il sur Giuan non era certamente un miscredente sacrilego, ma aveva ereditato l’indecorosa abitudine dei  carrettieri di spronare gli animali con imprecazioni e bestemmie, persuasi che l’asprezza del linguaggio fosse più convincente e risolutiva per le povere bestie, rispetto a comandi impartiti con dolcezza. Non pensava nemmeno al significato di quel che diceva, per lui erano semplicemente ordini destinati ad ottenere una determinata reazione del cavallo. Un giorno, mentre col calesse stava andando a Santa Maria, affiancò il prevosto che stava tornando a piedi verso il paese. Gli offrì un passaggio che il prete accettò molto volentieri. Il cavallo, all’ordine di partire, si mosse con il suo passo lento. Sur Giuan si rese subito conto di essersi cacciato in un guaio. Di quel passo non sarebbero mai arrivati a Santa Maria e d’altra parte, con il prete a bordo, non poteva ripetere l’imprecazione che avrebbe lanciato il cavallo al trotto. Il buon Giuan cercò una soluzione alternativa sbattendo le redini sulla schiena del cavallo, ma la povera bestia non capiva, disorientato e confuso, caracollava ora a destra ora a sinistra, rischiando di far ribaltare il calesse in un fosso. Il prevosto, già soddisfatto di trovarsi comodamente seduto, non si era avveduto della difficoltà del sur Giuan nel condurre il calesse, e disse: -Sto diventando vecchio, caro Giuan, camminare a piedi mi stanca molto, è stata una fortuna che ho incontrato voi, è proprio Cristo che vi ha mandato!-
Il sur Giuan, finse di non aver sentito, alzando la voce disse:- Chi è che mi ha mandato?-
-Cristo, Cristo!-, urlò il prete, pensando che il sur Giuan, pure lui non più giovane, cominciasse ad avere problemi di udito.
Il cavallo che finalmente aveva riconosciuto, almeno parzialmente il comando, prese a trottare e in pochi minuti raggiunsero la canonica di Santa Maria, con mille ringraziamenti del prete e un gran sollievo per il sur Giuan.
Anche se la collina era particolarmente adatta alla coltura della vite, nessuno si permetteva di dedicarsi esclusivamente a produrre il vino. Una grandinata o una brinata primaverile aveva il potere di ridurre una famiglia alla fame. Tutti cercavano di produrre il necessario per sopravvivere, grano, granoturco, foraggio. E tutti riservavano un pezzo di terra per l’orto. Si cercava di sfruttare il poco terreno in ogni modo. Tra un filare e l’altro si seminava il grano, le patate, i fagioli, l’aglio, le cipolle, le fave. In testa ai filari si piantavano alberi da frutto. Almeno quando l’annata andava male per l’uva, si riusciva a continuare a vivere. Le mucche nella stalla, oltre al riscaldamento d’inverno fornivano il latte,  il maiale la carne, i salami e lo strutto tutto l’anno, le galline le uova tutti i giorni.
In quegli anni era diffuso pure l’allevamento dei bachi da seta. La strada che sale al Bric, le strade che portano in campagna e molti campi, erano delimitati da lunghe file di gelsi. Nelle case si allestivano piccoli locali, a volte comunicanti con la stalla, a volte riscaldati da stufette a legna, dove su stuoie di canne venivano allevati i bachi. Era un’attività delicata, che non sempre dava buoni frutti.
Era insomma un’economia diversificata, che non permetteva di arricchirsi, ma che dava un minimo di sicurezza. Era difficile che tutto andasse male. Negli anni, purtroppo frequenti, in cui non si vendemmiava, alcune famiglie si limitavano a comprare il sale, lo zucchero, i fiammiferi e il carburo per l’acetilene. Tutto il resto lo producevano in proprio o erano costretti a rinunciarvi.
D’inverno, la stalla del sur Giuan era il ritrovo più frequentato del Bric. Era la più grande della borgata. Un atrio spazioso collegava la stalla con la scuderia.  Qui erano sistemate, come sedili, diverse balle di paglia. Erano disposte in maniera da formare un vero e proprio salotto intorno ad un grande tavolo al quale, la sera, alla luce dell’acetilene, si sedevano sia le donne a lavorare a maglia, sia gli uomini a giocare a carte o semplicemente a parlare e a fumare il toscano o la pipa.
Il più originale dei frequentatori della stalla del sur Giuan era  Battista. Battista aveva una qualità che lo caratterizzava  e per la quale era conosciuto al Bric e non solo. Nelle lunghe serate invernali, dopo qualche bicchiere, Battista incantava i presenti con i suoi incredibili racconti carichi di mistero. Riusciva a rendere verosimili e a far sembrare razionali, fantastici racconti di streghe, maghi, fantasmi che lui diceva di incontrare. Chi lo ascoltava non si sognava di mettere in discussione la veridicità delle sue narrazioni, per timore che smettesse di raccontare, tanta era la sua capacità di affabulare. Aveva una tecnica sopraffina, riusciva a introdurre il mistero anche quando mistero non c’era e i fatti erano spiegabilissimi con la ragione, ma lui la spiegazione non la forniva mai.
Battista, oltre alle sue vigne, ne coltivava una che era stata di suo fratello, morto qualche anno prima a pochi mesi di distanza dalla moglie.
Una sera Battista raccontò un fatto che gli era successo l’anno prima, proprio nella vigna del povero fratello. Questa era molto lontana dal Bric, ricopriva interamente la sommità di una collina che per la zona aveva una forma inusuale, arrotondata, come la parte superiore di un gigantesco panettone. Dal grande pianoro si spaziava a trecentosessanta gradi su una decina di paesi. Su tutta la collina non c’erano altre abitazioni oltre al cascinotto che il povero fratello utilizzava per riporre gli attrezzi e per ripararsi durante gli improvvisi temporali estivi.
Nella vigna che circondava la casa, oltre alle viti di barbera e altra uva da vino, c’erano dei filari di moscato, un vero nettare che, raccolto e vinificato a parte, veniva filtrato e imbottigliato. C’erano pure diverse viti di uva regina, moscato d’amburgo, e altre uve particolari, anche antiche, che in genere maturavano leggermente in anticipo rispetto alla barbera.
Battista si era accorto che, da quando coltivava lui la vigna, in prossimità della vendemmia, qualcuno nottetempo faceva sparire molte di queste uve, anche se erano appena all’inizio della maturazione.  Decise che queste ruberie dovevano finire e si rassegnò a sorvegliare il podere di notte, per difendere i grappoli dalle mani dei malintenzionati. Dopo cena partiva e andava a sorvegliare la vigna lontana.
Era una notte limpida di metà settembre, e di tanto in tanto il gufo scandiva il tempo col suo grido, regolare come un metronomo; a inter­valli si fermava per poi riprendere, monotono. Nessun altro rumore turbava la quiete della cam­pagna. Battista aveva sistemato una panchetta sul lato della casa rivolto verso il sentiero che saliva dalla collina, in modo da avere sotto controllo i filari dell’uva già quasi matura. Se ne stava seduto lì, il berretto calato sulla fronte; si riposava ma era pronto a saltare su al minimo fruscio. Ad un certo momento avvertì qualcosa che non andava, aprì gli occhi e balzò in piedi. Tutto taceva e brillava sotto la luna. Ad un tratto, in fondo al sentiero, apparve una figura bianca. Alta, spettrale, avanzava adagio ondeggiando. Battista non comprese: non riusciva a capire cosa fosse quel candore evanescente. Poco dopo riuscì a vedere meglio e rimase senza fiato: una donna avanzava verso di lui col para­sole aperto come passeggiasse sotto il solleone. Erano le due dopo mezzanotte, poco più, poco meno. La natura, fino ad allora amica, gli apparve insidiosa e ostile. Era preparato all’apparizione di un ladruncolo o più probabilmente di una banda di ragazzotti di Santa Maria che sicuramente sarebbero scappati a gambe levate appena lui avesse lanciato un grido, un’imprecazione. Non si aspettava certamente di veder apparire uno spettro e tantomeno quello di una donna. Si sentì solo, tremendamente solo ed ebbe paura. Fece per rientrare in casa ma, al momento di varcare l’uscio, si girò indietro e rimase inchiodato sulla soglia: la figura aveva imboccato proprio il viottolo che conduceva verso di lui. Con le mani sudate e tremanti, attese impietrito l'incontro col fantasma. Da vicino si accorse che quello che aveva scambiato per un parasole, in realtà era un grande cesto bianco che la donna portava sospeso sulla testa. Sembrava levitare senza appoggiare sul capo del fantasma.
Poi, improvvisa e gioconda, esplose una voce ar­gentina: -Battista!
Fu come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco. Battista riconobbe la voce di sua cognata, la mo­glie del fratello, morta sei anni prima.
Si schiarì la gola e facendosi coraggio, quasi timoroso che la voce gli tremasse, riuscì a dire: -Che c'è?
-Battista, sono venuta a prendere l’uva regina e l’uva fragola, come l’anno scorso.
Frastornato, Battista, la seguì in mezzo ai filari e la aiutò a riempire il cesto. In fondo cosa doveva fare, era pur sempre la legittima proprietaria. Senza alcun sforzo la donna si rimise sul capo l’enorme cesto e se ne andò come era venuta, senza dire al­tro, leggera e ondeggiante.
Battista, con la mente in subbuglio, la seguì con lo sguardo fin quando la donna scomparve lungo il declivio della collina.
Il povero Battista disse che da allora non sorvegliò più la vigna, in fondo l’uva fragola e la regina erano il giusto tributo che pagava volentieri alla famiglia di suo fratello per essere venuto in possesso della vigna senza averla dovuta pagare.
Solo dopo diversi anni, qualcuno dei ragazzi di Santa Maria che aveva partecipato alle beffarde spedizioni, non si trattenne dal raccontare, che quella notte avevano mangiato e raccolto l’uva, per poi scappare velocemente quando avevano  sentito che Battista aveva smesso di russare.
Non è dato invece sapere, se, in quella occasione, Battista avesse sognato la cognata che veniva a prendersi l’uva, oppure avesse chiesto aiuto alla sua fantasia per dimostrare di non essere stato burlato dai ragazzi mentre lui dormiva.
Se la stalla del sur Giuan era il ritrovo preferito nelle lunghe serate invernali, nelle calde sere estive il luogo di incontro per gli uomini del Bric era la piazza Carlina. Quella che chiamavano ironicamente  “piazza”, in realtà era il crocicchio, all’inizio della borgata, dove, dalla strada principale si diramava la stradina che passando davanti alla cascina del Barba Notu, proseguiva verso le vigne e i campi. Sull’angolo delle due strade c’era l’orto appunto del Barba Notu, delimitato da una recinzione di canne, piantate una accanto all’altra e abilmente intrecciate. La stretta stradina era percorsa ogni giorno dai contadini del Bric che andavano e venivano dalle loro vigne e capitava, che qualche carretto, girando troppo stretto rasente la recinzione, la danneggiasse con il mozzo delle ruote. Stufo di fare rattoppi alla recinzione, il Barba Notu aveva sistemato due grossi tronchi di gaggia sull’angolo dell’orto, in modo che i carri non potessero avvicinarsi troppo alle canne. Cominciò proprio il Barba Notu, ad andarsi a sedere, dopo cena, a fumare il toscano e ben presto i due tronchi divennero il luogo d’incontro degli uomini, specialmente dei vecchi del Bric. D’estate si faticava dall’alba al tramonto, quindi le chiacchierate non erano lunghe come nelle sere invernali. Ci si scambiava due parole, giusto per non andare a letto con la cena nel gozzo, ma se la notte era tiepida, la squadra giusta e la discussione si infervorava, gli uomini non si accorgevano del trascorrere del tempo. Gli argomenti riguardavano quasi sempre i lavori agricoli, ma trovandosi nel buio assoluto, sotto il cielo stellato ed eventualmente sotto il lieve chiarore della luna, poteva capitare che si accendesse improvvisa una disquisizione di astronomia. Particolarmente curiose erano le discussioni tra il Vasot e il Barba Notu. Il Barba Notu aveva frequentato la scuola fino alla terza elementare e aveva quindi imparato qualche nozione fondamentale di astronomia. Il Vasot, invece, fin dall’età di sei anni, si alzava alle quattro del mattino per andare davanti ai buoi, mentre il padre manovrava l’aratro, nei campi che la sua famiglia conduceva a mezzadria. A scuola non era mai andato e, oltretutto, crescendo, aveva maturato un carattere che lo faceva assomigliare a San Tommaso: si fidava solo dei suoi occhi e non era disposto a credere a quello che lui non poteva constatare personalmente. Secondo lui la Terra non era altro che un’isola, una grande ciambella sospesa sul mare. Si metteva a ridere quando il Barba Notu gli giurava che la terra era rotonda e girava su se stessa come una palla. Secondo il Vasot, il cielo era una grande cupola e le stelle erano luci senza corpo, tutte alla stessa distanza dalla terra e il sole andava e veniva compiendo un arco nel cielo. Non aveva mai sentito parlare di Copernico, di Galilei, e neanche voleva sentirne parlare. Secondo lui erano tutti visionari o ciarlatani.
-Vedi,- gli diceva Barba Notu,  -il sole tramonta da una parte e poi rispunta dall’altra, perché la terra è tonda e gira su se stessa. Potrei capire se tu, nella tua ignoranza, mi dicessi che è il sole che gira attorno alla terra, perché se non hai studiato, sembra che sia così. Ma come fai a dire che il sole va e viene, se spunta sempre dalla stessa parte? Dovrebbe spuntare un giorno da una parte e il giorno dopo dalla parte dove è andato sotto.
-Questo si spiega facilmente,- rispose il Vasòt, -la notte, il sole torna indietro dalla stessa strada che ha fatto di giorno e, se non lo vediamo tornare, è appunto perché torna indietro di notte!
A distanza di cinquant’anni da questi avvenimenti, il Bric è completamente cambiato. Le brave persone che lo abitavano in quegli anni non ci sono più.
I giovani sono diventati vecchi e si sono sparsi per il mondo. Le cascine sono state trasformate in seconde case. Al posto delle stalle ci sono garage, al posto dei letamai piccole piscine. Le vigne non ci sono più. Al loro posto maneggi e campi da tennis. La grande casa del sur Giuan è diventata un resort che alla sera si illumina di mille luci. A ricordare quei tempi, nel prato davanti alla reception, è rimasto il calesse. Gli sposi che vengono qui per il pranzo di nozze, nel loro album, hanno almeno una foto davanti al calesse del sur Giuan.
Quelli che allora erano nel pieno vigore sono morti uno dopo l’altro. Il Vasot è mancato a novantacinque anni il 22 luglio 1969, il giorno il cui l’uomo ha messo piede sulla luna. Qualche sera prima, stava ad ascoltare, per quel che poteva, visto che l’udito lasciava ormai a desiderare, i discorsi dei nuovi vicini che commentavano l’impresa degli americani che stavano per sbarcare sulla luna. Non capiva molto di navicelle spaziali, di modulo di comando e di modulo lunare. Mentre si alzava per andare a dormire, indicando con il bastone la luna che splendeva sopra il Bric, volle ancora dire la sua: -Non potranno mai stare due uomini insieme sulla luna! Non vedete quanto è piccola?  E poi come fanno ad arrivare fin lassù? Non vedete? Sarà alta almeno cento metri!-
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Elso Avalle è nato in una piccola frazione di un piccolo paese del Monferrato. Si è interessato professionalmente di informatica e ha dedicato parte del suo tempo libero alla narrativa. In pensione da pochi mesi, ha partecipato a qualche premio letterario,  ottenendo lusinghieri successi. Primo classificato ai premi letterari: “Ettore Ottaviano”, “Parole in Corsa” – Alessandria,  “Lorenzo Sacchero” e "La Lettera Matta 3"
 
 

Commenti

  1. Quando avete comunicato i trenta finalisti selezionati, dando una scorsa ai nomi e ai titoli, ho avuto la sensazione che il racconto vincitore sarebbe stato quello di Elso. Solo una sensazione. Nulla di definito.
    Poi, riflettendoci meglio, ho intuito: Elso Avalle è l'anagramma di "sole a valle"! Bene, "Monferrato di sole e di luna" e "sole a valle". Ci sono un calore e uno splendore sprigionati da queste poche parole che la lettura del racconto mi ha confermato.
    Sentimenti, dialoghi e immagini che scaldano il cuore.
    Complimenti a Elso per la sua meritata vittoria!
    Mariachiara Moscoloni

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  2. Bella lettura; la dovizia di particolari rende emozionante il contrasto tra il mondo antico e "giusto" con quello attuale così decaduto. Grazie Elso, complimenti.
    Giorgio

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  3. Il racconto è scritto bene, ma non mi ha entusiasmato molto. Inoltre, troppi particolari stancano. Ma è solo un mio giudizio personale. Tuttavia complimenti al vincitore.
    Ciao.
    Elena

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