RACCONTO DI GABRIELE ASTOLFI
VINCITORE DEL 2° CONTEST "LA LETTERA MATTA" edizione 2010
VINCITORE DEL 2° CONTEST "LA LETTERA MATTA" edizione 2010
A
Meo le donne erano sempre piaciute. Da quando aveva infilato per la prima volta
i calzoni lunghi, non ricordava un solo momento in cui non gli fossero
piaciute. Ma non soltanto le mozzafiato, le belle o le vistose; pure le carine,
le graziose a modo di complimento, e perfino quelle così così. Addirittura
certe bruttine con un vago non so che. Le brutte no. Tenendo presente che Meo,
da consumato nocchiero della vita, si sforzava
di scovare in ogni femmina che adocchiava qualcosa di speciale. Un
particolare che ne riscattasse l’anonimato estetico e la rendesse appetibile ai
sensi. Se questo mancava o non era così evidente, ci pensava la sua fantasia a
crearlo o a metterlo in luce, trasfigurando il banale in eccentrico, il difetto
in privilegio. E di tale sapienza menava vanto, piccandosi di trovare in ognuna
tratti e sfumature sconosciuti finanche all’interessata.
A
Meo delle donne piacevano gli occhi, la bocca, le gambe, il seno, il
fondoschiena, i capelli. Non di necessità in quest'ordine. Ma anche le
orecchie, il naso, il girovita, i piedi, le zampe di gallina intorno agli
occhi. E ancora il sorriso, la voce, l’incedere, la profondità dello sguardo,
la natura dell’indole, l’atteggiarsi non viste. Fino al colorito della pelle, la
forma delle spalle, l’odore del corpo, il disegno delle mani. Addirittura il
modo di soffiarsi il naso, di mangiare una pietanza o di cambiar discorso
all’occorrenza. Oltre naturalmente alle vibrazioni, visive e sonore, ma
soprattutto tattili, rimandate da quello che era il suo fine ultimo, farle sue.
Attività praticata sempre fuori casa, dove viveva insieme alla madre, dopo che
il padre li aveva lasciati per un approdo senza ritorno. Perché dopo l’amore
era bello tornare al nido materno, senza dover sottostare al giogo di dormire
fra le braccia dell’amata, come nei film.
L’ultima
gli era piaciuta per il modo in cui starnutiva. Era forse il frutto più
insolito della sua ricerca feticistica per il dettaglio, ma questa emetteva un
“pcì” così garrulo e melodioso, che era tale quale il cinguettio del canarino a
suo tempo gioia e orgoglio di mamma. Canarino che la suddetta, una mattina,
svegliatasi di soprassalto per non averne sentito il canto, aveva trovato
stecchito nella gabbia. Appena lo vide, orizzontale e a occhietti chiusi, ne
soffrì a tal punto da non averne più voluto sapere di pennuti canterini, che il
loro trillo avrebbe riecheggiato i gorgheggi santi di quel fringuello esotico
che le aveva alleviato il peso dell’addio al marito.
Insomma,
a Meo delle donne piaceva tutto. Ma soprattutto, cosa assai preoccupante in un
sistema monogamico, gli piacevano tutte.
In
conseguenza di ciò non si era mai sposato. Con una sola donna non avrebbe
potuto affinare le sue inclinazioni. Avrebbe anzi finito per spegnerle a poco a
poco, fino a esaurirle completamente. Perché ognuna era unica, diversa dalle
altre. Al pari di un sommelier, che non può prestar labbra a un solo vino, così
un degustatore di femmine qual era non poteva concedersi a una dama solamente.
Ne aveva perciò avute più di quante riuscisse a ricordare.
Da
ragazzo era stato un vero porco, di quelli che alle gentildonne piacciono così
poco di giorno e così tanto di notte. Un porco vigliacco, che dopo essersi
divertito, ma anche averle fatte divertire, le lasciava senza palpiti né
rimorsi, come si cambia di posto al cinema. Poi era cambiato; non riusciva più
a vederle piangere senza provare un rigurgito di colpa, non sentirsi ciò che in
realtà era. Un ladro di emozioni, che carpiva a ciascuna qualcosa, dando in
cambio solo il suo corpo e, con gli anni, un pizzico di sentimento e una
manciata di tenerezza. Col tempo, perciò, aveva preso a escluderle dalla sua
vita cercando di non intaccarne la sensibilità. Senza farle soffrire, se
possibile, e, pur sapendo che avrebbero sofferto, teneva a che serbassero
dell’abbandono un buon ricordo.
Così,
ogni volta che le sue amanti passeggere cominciavano a parlare, se non di
matrimonio, di fidanzamento o di convivenza, o anche solo a insistere per
conoscere sua madre, Meo faceva il classico passo indietro. Diceva di non
sentirsi pronto, di dover maturare e cose del genere.
Certo
quand’era giovane era più facile dar da bere all’esclusa di turno l’amaro
calice. Ora che tanto giovane non era, e che diverse ciocche di capelli bianchi
parlavano per lui, queste scuse non erano più buone. Ne occorrevano altre, più
adatte alla sua età.
Proprio
per questo faticava a sbarazzarsi dell’ultima, la “canarina”, che per lo stesso
motivo era quella che aveva frequentato da più tempo. Costei peraltro, da
implume femmina stanziale, soleva agghindare il cinguettio con bracciali e
monili che la illuminavano a mo’ di effetto speciale, e tintinnavano, allegri o
stonati, in sintonia col suo umore. Quando non bardava le orecchie con pendenti
allungati che la rendevano simile a un’abat-jour barocca. Una festa di luce e
di musica. Stonature comprese.
Nondimeno
Meo, desiderando sperimentare nuove ebbrezze corporee, aveva cominciato a
volgere lo sguardo verso altre femmine. L’ultima che ne aveva catturato la
vista era una dai polpacci robusti, promessa, a risalirli, di ben più
consistente e altrettanto soda rotondità, e della quale bramava essere
catturato pure dal resto.
Non
poteva certo raccontare all’amata in scadenza la panzana che non era ancora
maturo e via dicendo. Sarebbe stata un’offesa sia ai suoi capelli sale e pepe
che alla sensibilità della compagna.
Bisognava
trovare la scusa delle scuse, la scusa senza possibilità di replica. Già, ma
quale? Fu Lucina, la sua ignara metà senza speranza, a offrirgliela su un
piatto d’argento. All’ennesima richiesta di presentarla a sua madre, e
all’ennesimo diniego di Meo, decise di fargli breccia nel guscio.
“Non
sarà mica malata?” gli chiese con l’aria di chi esclude che lo sia.
La
madre malata, eccola la scusa, pensò subito lui. Anzi, malatissima. In
condizioni tali da non poter vedere nessuno.
“Sì.”
rispose triste, mentre rideva dentro.
“Molto?”
trovò la forza di esalare lei, inghiottito il rospo del suo stesso parto, e al
grave cenno d’assenso di Meo emise un flebile “Scusami per non averlo capito.”,
senza osare approfondire. L’espressione del compagno era più eloquente del
bollettino medico di un moribondo.
Il
problema però non era soltanto quello di rinviare a giammai l’incontro di
Lucina con ciò che restava della sua famiglia, quanto quello di mollarla. Il
pretesto era bell’e pronto.
“Devo
lasciarti. Mia madre è peggiorata.” le comunicò il giorno dopo.
“All’improvviso?”
“Stava
già male prima. Mi dispiace, ma devo dedicarmi a lei.”
“Ti
aspetterò. Mi accontenterò del tempo che potrai offrirmi.”
“Ne
avrò per molto, e io non voglio che sacrifichi la tua vita per me.” concluse
con la nobiltà d’animo di un cavaliere antico. E se ne andò per non vederla
piangere. Mai sipario su una femmina era calato più nobilmente. Ne era quasi
fiero, come se avesse compiuto una buona azione. Era finita, poteva passare
alla prossima, la polpacciuta.
Lucina
però non si dava pace per quel licenziamento in tronco, sia pure, almeno in
apparenza, per una giusta causa. Pensò bene perciò, il giorno dopo, di chiamare
la “malata”. Lo fece così, d’istinto, senza un perché, e neanche la speranza
che qualcuno rispondesse. Solo che qualcuno rispose.
“Buongiorno,
posso parlare con la madre di Meo?” azzardò esitante all’energico “Pronto” di
una voce di donna. Chi poteva essere? Un’infermiera, la dama di compagnia, una
domestica?
“Sono
io.” rispose ferma la voce.
Lucina
non credette alla cornetta.
“Parlo
con la mamma di Meo?” chiese di nuovo, lentamente, quasi ad aspettarsi una risposta
diversa. Temeva di aver capito male. O lo sperava, per non scalfire la fiducia
in chi l’aveva appena scaricata? O forse era stata fraintesa all’altro capo del
filo. Sempreché non avesse sbagliato numero.
“Sono
io.” confermò la voce, il tono di chi lo è davvero.
“Mi
chiamo Lucina” balbettò fra l’incredulo e il rinfrancato. Ma più sul primo che
sul secondo. “Sono un’amica di suo figlio. Come sta, signora?”
“Bene.”
rispose con somma meraviglia la voce. Quale amica di Meo si era mai preoccupata
della salute di sua madre?
Come
bene?, si chiese Lucina. Da quando in qua una malata, per di più grave, sta
bene? Anche se non manca chi scoppia di salute, che a chi gli chiede come sta,
risponde che sta male per scaramanzia.
“Sta
bene?” ripeté la risposta in forma di domanda, traducendo inconsciamente il
pensiero in parola.
“Sì.”
disse la voce “Oddio, acciacchi a parte.”
Ah,
acciacchi. Dunque proprio bene non stava.
“Ma
chi non ne ha?” aggiunse subito dopo.
Già,
sospirò Lucina pensando alle sue emicranie.
“Quindi
non sta male?”
“Non
mi posso lamentare, signorina. Perché, dovrei stare male?”
“No…
è che Meo… era preoccupato per la sua salute.”
“Mio
figlio è molto caro, ma non ha di che preoccuparsi.”
“Ho
piacere di averla sentita.” chiuse Lucina, fugato ormai ogni dubbio “La
saluto.”
“Grazie,
signorina. E richiami quando vuole.”
Dunque
Meo l’aveva imbrogliata, la malattia di sua madre era una scusa per liberarsi di lei. Doveva avere
un’altra, il fedifrago. Come poteva però dirgli di aver scoperto l’inganno
senza scoprirsi a sua volta, ammettendo cioè di aver chiamato il suo pretesto
in carne e ossa?
Stavolta
l’inganno lo architettò lei. Richiamò la madre e le chiese se ci stava a fare
una sorpresa al figlio. Le disse che era stata fuori per lavoro, e che l’aveva sentito
solo per telefono; così, se fosse stata
d’accordo, sarebbe passata quella sera e gli avrebbe fatto una sorpresa.
Questa accettò con gioia, a una condizione, che rimanesse a cena con loro. Era
vecchia, e prima o poi avrebbe raggiunto il marito. Se ne sarebbe andata più
tranquilla sapendo il figlio sistemato con una brava ragazza.
Quando
Meo rincasò sotto il temporale e vide la tavola apparecchiata per tre, ebbe il
sospetto che sua madre non stesse troppo bene. Ripensando anzi alla scusa che
gli aveva consentito di tornare libero e cacciatore, paventò che la fantasia
fosse diventata realtà. Allorché però sentì suonare alla porta e andò ad
aprire, fu lui a sentirsi male.
“Sorpresa!”
trillò Lucina togliendosi la cerata gocciolante.
“Ho
invitato una tua amica per cena.” sentì dalla cucina “E’ molto simpatica.”
L’
“amica” gli passò la cerata con un sorriso di vittoria, che sembrava dire “Chi
di scusa ferisce, di scusa perisce”. Meo lo ricambiò con una smorfia informe,
più prossima al pianto che al riso. Era perduto. Avrebbe voluto disintegrarsi,
scomparire. E riapparire altrove, o da nessuna parte; con la sua faccia, o una
diversa; o qualcos’altro, o niente. Tutto era meglio di ciò che l’aspettava.
Dove avrebbe trovato il coraggio di sbarazzarsi di una che stava simpatica a
sua madre? Perciò non aveva mai portato a casa
nessuna; perché fra tutte, qualcuna le sarebbe piaciuta, e avrebbe fatto
in modo che piacesse anche a lui. In maniera definitiva.
La
cena fu memorabile. Al dialogo delle due donne fu di contrappunto il silenzio
del commensale di troppo, che intercalava con sorrisi di cera le confidenze
della madre e quelle di Lucina.
Erano
ormai diventate amiche quando un “pcì!” improvviso fece sobbalzare la più
anziana delle due.
“Salute.”
disse istintivamente nel sobbalzo, prima di piegarsi a punto interrogativo,
come a cercare nel profondo. Una parola muta, un ricordo cieco, la traccia di
un passato che non si fa presente.
“Grazie.
Scusate, ma con tutta quest’acqua ho preso il raffreddore… Pcì! Pcì!”
“Dove
l’ho già sentito questo verso?” si chiese la madre, gli occhi ridotti a
fessure.
“Ciripicchio,
mamma.”
“Cosa?”
“Ciripicchio,
il canarino.”
Le
due fessure si spalancarono, quasi scalzando le pupille dalle orbite, la bocca
si aprì rattrappendo, mentre il volto rabbuiava di colpo, come un faro che si
spegne nella notte.
“No!
Ciripicchio no!” gridò in piena rielaborazione del lutto la madre, che aveva
finalmente dato un volto a quel suono. Un volto che, nel sovrapporsi a quello
di Lucina, le aveva mostrato quello dell’unico canarino della sua vita.
“Ma,
signora… Pcì! Pcì!” tentò di replicare, cinguettando inesorabilmente,
l’inconsapevole copia sonora dell’originale.
“No,
non posso sentire quel verso! Va via, ti prego!” e corse in camera fra i
singhiozzi.
Stavolta
fu Lucina a sentirsi perduta, a voler scomparire. Stentava a credere a quanto
era successo. Meo, invece, non credeva alla sua fortuna. Un attimo prima era
spacciato, e ora era salvo. Salvo per merito di un uccello, e di un mai tanto
tempestivo raffreddore. Un raffreddore benedetto dal cielo, e da ciò che ha di
più pulito, la pioggia.
“Te
l’avevo detto che era malata” disse con falsa ma convinta tristezza alla sua
ormai definitiva ex, mentre si tamburellava con l’indice una tempia.
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L'autore.
E' laureato in giurisprudenza e lavora in banca. Ha frequentato corsi di filosofia, di teatro e di lettura espressiva, e recitato in una compagnia di teatro dialettale, prima di cominciare a scrivere. Nel 2003 ha pubblicato il suo primo romanzo, dal titolo "La pratica" (Ibiskos Editore, attualmente in ripubblicazione presso Giraldi Editore) al quale sono seguiti "Una giornata normale", "Due zampe di troppo" e "... andremo ancora a giocare" (tutti per Giraldi Editore).
Un bellissimo racconto. Davvero divertente.
RispondiEliminaFrancesco Olivietti.
Racconto divertente con buon ritmo anche se la storia mi sembra leggera e troppo fantastica, ma se vista da una angolatura diversa diventa una buona favola per grandi o un racconto da sale per uomini soli, anche se le donne non disdegnano di parlare di questi argomenti.
EliminaRacconto originale e sincero. Non è facile non cadere nella volgarità quando si trattano simili temi.
EliminaGrazie Francesco per averci lasciato un tuo commento.
RispondiEliminaUn abbraccio.
Alessia
Inserisco un commento inviatoci via mail da parte di Paola Carlomosti:
RispondiElimina"Il racconto di Astolfi rientra un po' nel filone 'fabio voliano', che a noi donne piace molto leggere, ma poco 'vivere' come deutoragoniste o attrici non protagoniste, se vogliamo. Lettura piacevole. Azzeccati i tempi teateali e buono il ritmo. Squisitamente colpita".
Racconto dal buon ritmo, tra pause e riprese. L'autore è riuscito a rendere con freschezza un tema che facilmente è reso con banalità.
RispondiEliminaMicole Imperiali
Piacevole, divertente, scorrevole. Una storia che ci fa esultare di fronte alla scoperta della menzogna da parte di Lucinda e che poi ci strappa un sorriso nell'imprevisto finale.
RispondiEliminaElena Ramella
Molto bello il colpo di scena finale...La mamma-chioccia che ha sempre l'ultima decisione su tutto cio che riguarda il suo pargolo, anche quando è adulto,è troppo italiana! Comicità pungente che fa riflettere sulla realtà delle relazioni tra i due sessi.
RispondiEliminaMi è piaciuto, ed è molto più vero di quanto non si creda... ben scritto, soprattutto, senza parole di troppo, con un ritmo piacevole.
RispondiEliminaInserisco un commento inviatoci via e-mail da Eliseo Pezzi:
RispondiElimina"Sono lontano dalle problematiche affrontate da questi autori. Ritengo che bisognerebbe non solo raccontare i fatti, ma cercare di indagare ciò che determina il nostro agire, che spesso esprimiamo contro le nostre stesse volontà. Non ci è possibile agire secondo nostra volontà, ma agiamo per induzione della psiche, che è possibile dominare se la costruiamo nel coinvolgerci con stima e dignità di sé, e negli altri".
Racconto spiccatamente maschilista in cui emergono due figure femminili.
RispondiEliminaLucina che si mostra intraprendente e non si limita ad accettare le scuse del suo uomo.
La madre pronta ad accogliere la fidanzata del figlio, ma inconsciamente poco convinta.Infatti, quando sente lo strano starnuto di Lucina che le ricorda il verso del suo canarino morto,la caccia via e scappa piangendo.
Un finale ad effetto, surreale e un po'comico. Il protagonista ne esce ancora una volta vincitore.
tanto galletto con le donne fuori di casa quanto succube della mamma ! il protagonista riuscirà ad innamorarsi di UNA donna solo quando non ci sarà più la mamma.
RispondiEliminaRaffaella Burlando
Racconto molto simpatico e con leggerezza tocca argomenti molto seri come il rapporto madre/donne, la fuga ...
RispondiEliminaRacconto molto divertente e scritto bene. Ha un che di "già sentito", ma d'altronde visto il genere non è facile essere completamente originali.
RispondiEliminaBel racconto, dalla trama ben costruita e dal finale a sorpresa. Unico neo: lo stile, soprattutto nella prima parte, è un po' ampolloso e a mio avviso risulta più adatto a un romanzo che a un racconto breve.
RispondiEliminaMarco Granito
Racconto piacevole, anche se sinceramente non mi ha entusiasmato:un tipico personaggio stra-utilizzato anche nei film, che ormai annoia.
RispondiEliminaIl racconto è piacevole anche se non mi ha entusiasmato molto.
RispondiEliminaElena Piccinini
Buon racconto, costruito e scritto bene. Vorrei però chiedere una cosa all'autore. Perchè parla di me? Addentrandomi nel racconto ho trovato tutte situazioni familiari e note. Solo una mi manca, non ho mai usato il canarino per mollare una donna... Farò tesoro dell'idea.
RispondiEliminaAhahah, devi essere un bel tipo!
RispondiEliminaBel racconto, molto scorrevole e fantasioso. Devo dire la verità, conosco qualcuno(amico), che usa di queste tecniche e soprattuto, delle donne piace tutto. Piacevole.
RispondiEliminaComplimenti
Marco Squarcia
Un racconto che si lascia leggere tutto di un fiato...
RispondiEliminaC'è suspance, c'è velocità, c'è la giusta ironia che fa riflettere... c'è gusto e stile.
In una parola "Molto apprezzato".
Scorrevole, tema leggero, sinceramente non mi ha intusiasmato molto ma carino.
RispondiEliminatrovo molto "pomposa", e pertanto poco scorrevole, la prima parte; nel complesso si lascia leggere ed i dialoghi sono resi molto bene. caterina degano massimo
RispondiEliminaInserisco un commento inviato tramite e-mail da Giuseppe Maccauro:
RispondiElimina"Il racconto e' piacevole si legge tutto di un fiato. Il tema seppure sfruttato e' reso intrigante dallo autore. Apprezzabile l'uso dell'ironia che si fonda bene con il ritmo del racconto. Bello!".
Racconto che si legge volentieri. Sono possibili due letture: ci si può vedere l'aspetto "mammone" e di eterno "Peter pan" del protagonista, guardando la storia con occhi femminili e invece la storia di un abile "Don Giovanni", stratega dell'abbandono di donne appiccicose ed evanescenti, da un punto di vista strettamente maschile.
RispondiEliminaMassimo Brunello
Buon racconto, costruito e scritto bene.Vorrei però chiedere una cosa all'autore. Perché parla di me? Addentrandomi nel racconto ho trovato tutte situazioni famigliari e note.Solo una mi manca,non avevo mai usato il canarino per mollare una donna... Farò tesoro dell'idea!
RispondiEliminaManlio Scarpellini
Argomento classico e ordinario trattato in maniera originale. Arguto lo stratagemma di riprendere nel finale il tema del canarino per la conclusione del brano. Piacevolissimo. Federico Torresan
RispondiEliminaAllora non è vero che "le bugie hanno le gambe corte".
RispondiEliminaRacconto divertente e piacevole da leggere, ma con un retrogusto amarognolo per una donna che ha conosciuto per davvero questo tipo d'uomo !
FABIOLA SCIARRATTA
Racconto interessante che si legge piacevolmente ed ogni tanto strappa un sorriso anche se a me il finale non è piaciuto molto se devo dire la verità. Ad ogni modo faccio i miei complimenti all'autore.
RispondiEliminaSimone cecconi
È un racconto un po' lento all'inizio. I numerosi termini non proprio di uso comune rallentano la lettura e rendono il tutto un po' prolisso. La storia è originale e molto ben descritta e divertente. Il finale è, secondo me, un po' tirato la e lascia un senso di incompletezza
RispondiEliminaLorenzo Val.
Il racconto è scritto molto bene e, nel complesso, la lettura è risultata piacevole. Tra le parole affiora una notevole padronanza della penna che delinea la maturità dell'autore. Non mi è piaciuta la parte introduttiva che utilizzi per inserire il protagonista: è troppo lunga. Passa troppo tempo prima che succeda qualcosa. Cosa che, in un racconto breve, dovrebbe avvenire quanto prima per non annoiare il lettore e invogliarlo ad arrivare alla fine. Il finale arriva inaspettato e fa sorridere.
RispondiEliminaLocatelli Luigi
Inserisco un commento inviato tramite e-mail da Fulvia Pamfili:
RispondiElimina"Trovo che sia chiarissimo e più volte sottolineato che al protagonista piacciono le donne… la lettura del racconto è scorrevole con un finale simpatico".
Racconto un po' lento all'inizio ma con un finale a sorpresa sapientemente preparato.
RispondiEliminaMeo rappresenta l'essenza esasperata della maschilità che, con la sua forte libido unita alla necessità di liberà incondizionata, in società viene quasi sempre vista negativamente. Invece, la volontà di creare legami sentimentali saldi e duraturi che si riscontra con più frequenza nelle donne viene nobilitata.
Tuttavia, entrambe le tendenze non dipendono dalla bontà e dal senso di giudizio individuale; sono semplicemente istinti naturali e quindi nessuno è migliore. è la società catalogatrice che vuole, ha bisogno, di giudicarli.
Nel racconto si parla della sofferenza che il protagonista provoca alle donne abbandonandole. Sarebbe bene osservare seriamente anche gli avvilimenti, molto più prolungati, che anni di convivenza matrimoniale o non possono provocare ad un uomo.
Stefano Gatti
Molto bello!
RispondiEliminaUn racconto originale e scritto bene. Un po' inverosimile ed esagerto, soprattutto nei dialoghi, ma studiato bene.
Manca di sentimenti e sensazioni e di una - seppur breve - introspezione psicologica.
Ma l'originalità e la simpatia, l'incredibile e spiazzante semplicità di una storia che funziona l'hanno reso piacevole.
Aurora B.
Racconto piacevole e divertente soprattutto nel finale. Ricorda i temi e la frivolezza con cui Fabio Volo affronta il tema nei suoi libri.
RispondiEliminaUn racconto ben strutturato e divertente al punto giusto. Nonostante la brevitaà del racconto, i personaggi non risultano banali, ma con una personalità ben definita.
RispondiEliminaRaffaele De Carlo
Il ritmo incalzante e l'originalità della storia rendono questo racconto più che un semplice episodio. Lo definirei una favola comica che travolge con il suo 'tocca-e-fuggi'. L'autore è stato abile a regalare in pillole momenti di quotidianità con i quali, bene o male, tutti ci troviamo a confrontarci. Questo racconto non avrebbe avuto bisogno di ulteriori dettagli o arricchimenti perché dalla sua semplicità traspare ben più di quanto altre futili parole avrebbero magari sminuito. Il colpo di scena in ultima battuta? Dolce pillola finale!
RispondiEliminaUn racconto davvero fuori le righe. Divertente, ma non banale. Descrive in maniera ironica il modo di fare di un personaggio che potrebbe sembrare fuori dalla realtà solo perchè è raccontato in modo scanzonato,ma che è più reale di quello che appaia ad un primo approccio. L'unica cosa che posso aggiungere è: povera Lucina!
RispondiEliminaEmilio F. Sergi
Povera Lucina! A parte questo mi è piaciuto molto questo racconto. Ironico e beffardo, ma non banale. Scorre bene e riesce a tenere l'occhio incollato alle parole.
RispondiEliminaEmilio F. Sergi
Il finale a sorpresa riscatta la trama un po' banale. Ottimo il ritmo e ricco il linguaggio.
RispondiEliminaGiorgio Castellari