LA VEDOVA NERA

Racconto di Giorgio Simoni
Vincitore del premio speciale per la narrativa di genere al 3°contest "La Lettera Matta"
(edizione 2013)
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Il sole accarezzava già la parte finale del fiume e una nebbiolina finissima saliva lieve verso l’alto. Il porto turistico di Cecina, dopo l’ampliamento, occupava buona parte dell’estuario navigabile e si apriva al mare protetto dall’insenatura naturale. Il traghetto in arrivo dall’Isola d’Elba aveva iniziato la manovra di attracco. Il maresciallo Spada s’era fermato sul molo e stava appoggiato alla ringhiera a guardare sbadatamente ciò che gli accadeva attorno; nonostante il giorno di libertà, aveva la mente completamente occupata dall’operazione “Vedova Nera”.

All’interno del quotidiano “Il Tirreno”, c’era ancora un articolo che parlava dell’uccisione di Alfio Canuti, avvenuta tre giorni prima per mano della ormai famigerata “omicida seriale di Cecina”.

Spada, rivolto al traghetto in manovra, guardava verso il mare aperto, senza focalizzare nessun punto in particolare. Il suo stato d’animo, come tra l’altro quello di tutti i suoi colleghi, viaggiava in sotterranea; la tenenza dei carabinieri di Cecina era impegnata su quel caso con tutti gli effettivi disponibili. Ma ancora una volta non erano riusciti a prevenire la tragedia; con la morte di Canuti gli uomini uccisi erano tre: tutti quarantenni, tutti single e comunque, tutti frequentatori di locali non proprio raffinati. Sul corpo delle vittime, l’omicida, aveva disegnato, con del fondotinta, un grosso ragno; per questo l’operazione era stata denominata “Vedova Nera”. Quell'elemento inconfutabile, aveva tolto ogni dubbio agli inquirenti nell’attribuire i tre omicidi a un unico assassino: quasi certamente una donna dal profilo psichico molto compromesso, a giudicare dal tipo di mutilazione che aveva inferto alle sue vittime. I referti degli investigatori scientifici parlavano chiaro: “evirazione”.

I cadaveri erano stati ritrovati in luoghi diversi: il primo in una casa di campagna, il secondo nel retro del camper di proprietà e il Canuti nella sua cantina. Per poter circoscrivere il numero dei sospettabili, si era indagato sulle abitudini, soprattutto sessuali, dei tre uccisi. Ma quella pazza squilibrata, non doveva essere affatto stupida, al contrario, doveva possedere una abilità non indifferente nel dissimulare la propria personalità, dote che le permetteva di sgusciare sempre fuori dalle maglie della rete tessuta dall’Arma.

Il maresciallo Spada sentì, attraverso la ringhiera, la vibrazione del contatto che la fiancata del traghetto aveva provocato urtando le gomme del molo. Si riscosse dai suoi pensieri e mentre i marinai sistemavano la passerella per far scendere i turisti, riprese la sua passeggiata in direzione del centro. Quando arrivò in prossimità delle strisce pedonali, per attraversare la strada, rivolse un’occhiata pigra ad entrambe le direzioni; dal lato sinistro comparve la linea familiare di una volante. Vide la freccia lampeggiare e l’auto si fermò a due passi da lui; il finestrino era già abbassato: — Spada… buongiorno — salutò una voce giovanile — stavo proprio pensando a lei.

— Buongiorno capitano Panerai, ci sono novità? — chiese Spada disponibile.

— Be’, no… ma domattina venga subito a rapporto, dobbiamo concordare alcune faccende sull’avanzamento delle indagini per il caso “Vedova Nera”.

— Ok, signor capitano; alle nove?

— Alle nove — confermò l’ufficiale, — oggi si goda questo magnifico sole… arrivederci. — Subito dopo allargò un sorriso, poi chiuse il finestrino e si voltò verso il carabiniere alla guida. Spada osservò il collega controllare lo specchietto retrovisore, lo vide inserire la marcia e l’auto sgommò via. Il maresciallo ebbe appena il tempo di salutare con la mano.

La mattina seguente il cielo era d’umore grigio, una coltre di nuvole sottili copriva il mare fino all’orizzonte. Il maresciallo Spada era entrato in caserma con un obiettivo primario da compiere: prendersi un buon caffè; la visita dal capitano sarebbe venuta dopo.

Quando, alle undici e trenta, uscì dall’ufficio del superiore, Spada era grigio come il cielo che aveva lasciato fuori dalla caserma. Non sentì nemmeno il solito languorino allo stomaco che tutti i giorni lo avvisava dell’approssimarsi dell’ora di pranzo. Teneva lo sguardo a terra e quando il brigadiere Scarelli lo salutò, si lasciò sfuggire solo un incomprensibile grugnito.

— È come penso marescia’? Lo facciamo di nuovo? — provò a indovinare il brigadiere.

— Lo facciamo di nuovo... — ammise Spada rassegnato.


La donna lo guardò ancora una volta intensamente; era su di giri. Si portò alla bocca il bicchiere di brandy e mise in risalto il seno, pronto a schizzare fuori dalla scollatura. L’uomo non ebbe bisogno di ulteriori conferme… “Ci sta”, pensò. Il locale era quasi deserto; la signora, dietro la macchina del caffè, trafficava con le tazzine. Le luci che degradavano d’intensità allontanandosi dal bancone addolcivano l’ambiente. I tavoli bassi, contornati da divanetti lisci, brillavano sotto a faretti dedicati. Lui si alzò dal suo divano col bicchiere al seguito, si avvicinò con lentezza al banco e appoggiò il suo scotch, proprio accanto al braccio nudo della donna, il profumo dolce che salì alle narici gli piacque: — Serata noiosa? — approcciò.

— Dipende… — rispose lei socchiudendo gli occhi.

— Ci fumiamo una sigaretta? L’aria fuori è piacevole…

— Mi ero promessa di smettere.

— Da quando?

— Ok… da domani — si arrese lei.

L’uomo prese il bicchiere e scolò il whisky, la donna fece altrettanto, poi allungò una mano alla borsa e si alzò dallo sgabello.

Una bionda longilinea, alta quanto lui, strizzata in un vestitino leggero e cortissimo: “Proprio niente male; la signora sa mantenersi in forma,” pensò l’uomo, poi la guardò ancheggiare sul tacco dodici dei sandali: “che culo fantastico.”

La notte era serena, ammorbidita dallo sciacquio del mare. La sponda sembrava riflettersi sulla superficie di uno specchio. La fila dei pini si rincorreva sul marciapiede del lungomare; il primo lampione era spento e i cerchietti incandescenti delle sigarette si muovevano nella penombra.

— Potrebbe essere una serata da finire in bellezza… — azzardò l’uomo, accarezzandole lentamente una spalla.

— Non ti piace perdere tempo. — rispose lei, senza sottrarsi.

— Non mi sembri in cerca di chiacchiere.

— Perché no? Una donna sola… — si schermì lei addolcendosi.

— Ok, lasciamo perdere— s’irrigidì lui — ti offro un altro whisky e poi…

— Io sono Giulia — disse a quel punto la donna, più disponibile.

— Luca— e gli porse la mano, — mangiamo qualcosa?

— A quest’ora non ho fame. Ho solo voglia di muovermi.

Lui rimase un attimo in silenzio, si concentrò sul fumo della sigaretta; la mente distratta da pensieri loschi. Fece uno sforzo e cercò di rasserenarsi impostando un sorriso, guardò la donna negli occhi; la vide sorridere a sua volta: “Chi sei davvero?” domandò senza aprire bocca; poi riuscì finalmente a dire: — In via Galliano c’è un locale con la musica giusta. — Il suo tono di voce non era molto convincente.

— Per finire in bellezza intendevi… ballare? — Gli occhi della donna avevano brillato, maliziosi.

— Be’, hai una proposta migliore? — La guardò bendisposto.

— Andiamo in camera mia; alloggio qui al Luna — propose lei determinata; nei suoi occhi, forse, a brillare era qualche scotch in più.

— Ci portiamo una bottiglia?

— Sì, prosecco.

Lei si appoggiò alla spalliera di una panchina e accese un’altra sigaretta. L’uomo si avviò lentamente verso il locale, si tolse il mozzicone di sigaretta dalla bocca, con un gesto istintivo lo fece volare lontano spingendolo con lo scatto dell’indice contro il pollice. Seguì la traiettoria della cicca e la vide atterrare davanti all’edicola chiusa, proprio sotto la locandina de “La Nazione”. Fece scorrere lo sguardo sui titoli, poi infilò una mano in tasca e, poco prima di varcare la porta del locale, prese il cellulare.

— Hai avvisato che farai tardi? — domandò lei, appena lui fu di ritorno col prosecco.

— Matrimonio grigio. Quando capita una partita di poker con i vecchi amici… la possiamo chiamare così? Meglio avvisare, non voglio che lei si preoccupi.

— Un maritino premuroso… Bravo! — Con due dita gli accarezzò ironicamente una guancia, poi gli afferrò la mano, lo penetrò con lo sguardo e iniziò a camminare tirandoselo dietro come un bambino.

Lui strinse più forte la bottiglia dello spumante e la seguì; prima d’imboccare via Baldissera si voltò nelle due direzioni del viale lungomare: non vide nessuno.

— Perché non porti la fede? — domandò lei quando furono di fronte all’albergo.

— Non sopporto gli anelli e, più precisamente, non sopporto le cose che cingono… vedi, non porto nemmeno l’orologio.

— Neppure gli slip allora?

— Be’, lì mi arrangio con boxer non attillati.

— Peccato! — disse lei con aria spavalda, — vieni. — Lo invitò a salire le scale.

Entrarono nella reception dell’alberghetto; le pareti erano rifinite con una boiserie di legno chiaro, sullo sfondo c’era il banco dell’accoglienza… deserto. La vide estrarre dalla borsa una chiave zavorrata con un grosso disco metallico con impresse tre grandi cifre: uno, uno, zero. “Stanza centodieci” memorizzò.

— Saliamo con le scale? — chiese lui ambiguo.

— Sì, la camera è al primo piano — spiegò lei imboccando un corridoio dal pavimento vellutato che portava alla rampa. Lui controllò di nuovo il cellulare, si soffermò un attimo prima di svoltare l’angolo; il tempo necessario per rispondere o inviare un messaggio.

La donna lo attese oltre la porta della camera: — Era di nuovo tua moglie? — chiese con un pizzico di fastidio nella voce.

— Sì, probabilmente il suo sesto senso non le permette di addormentarsi. — Si volle giustificare lui.

Lei sfiorò la parete color salmone, si avvicinò al letto e appoggiò la borsa. Tutta la mobilia era in finto legno. Nemmeno le tende drappeggiate riuscivano a riscaldare l’ambiente. Lei prese la bottiglia dalla sua mano e l’appoggiò sul tavolo, gli cinse i fianchi, lo accarezzò e gli premette il corpo contro le spalle. Lui si lasciò avvolgere prima dal profumo e poi dal contatto; ma una fulminea sensazione di disagio lo attraversò, come un solletico non desiderato. Ricambiò comunque l’effusione senza tradirsi.

— Brindiamo? — le sussurrò.

— Sì.

Lui iniziò ad armeggiare intorno al collo della bottiglia, lei non attese, si scostò e si avviò verso il bagno.

Quando fu di ritorno, era avvolta in un soffice accappatoio bianco; ai piedi spiccavano delle scarpe nere dal tacco altissimo e sottilissimo di colore argento, la fiocca era fasciata da una serie di quattro lacci guarniti di strass.

Lui osservò quei sandali particolari e non riuscì più a distogliere lo sguardo; il suo cuore accelerò i battiti, la sua mente iniziò ad elaborare.

— Luca! — Lo chiamò lei, divertita da quell’impasse prolungata.

Lui riemerse dai pensieri, alzò il bicchiere con le bollicine e pronunciò con un sussurro: — Santé!

Lei prese il bicchiere, lo sollevò, fece per portarlo alla bocca e, mentre lui faceva altrettanto, con un gesto fulmineo estrasse dalla tasca dell’accappatoio uno strumento scuro; una specie di pistola senza canna. Lui non ebbe il tempo di capire; l’oggetto in un attimo sfiorò il suo petto. La scossa elettrica fu tremenda; nell’aria si diffuse un acre odore di bruciato.

Era riemerso dalla nebbia; un intenso dolore al petto gli accendeva le terminazioni nervose. Provò a muovere il braccio, ma non ci riuscì: era legato. Guardò le spire delle corde che gli avvolgevano i polsi e le caviglie, avevano un che di molto solido. Ebbe la sensazione che ogni pelo del suo corpo fosse un filo elettrico; era completamente nudo. Il suo cervello iniziò a ricostruire ciò che era accaduto. Capì di essere nei guai fino al collo, s’era fatto fregare come un pivello: “Un maledetto dissuasore elettrico” pensò, un elemento che non aveva proprio considerato.

Corse con la mente alla locandina de “La Nazione”, si rammentò la notizia letta senza pensare: “Terza vittima della Vedova Nera... Uomo di quaranta anni ucciso…” Si sentì uno sciocco, ora non c’erano più dubbi, probabilmente la quarta vittima di quella pazza squilibrata sarebbe stato lui.

Nemmeno nelle sue più ardite fantasie erotiche s’era mai immaginato di trovarsi a tu per tu con una bionda, assatanata e dominatrice.

Era ancora immerso nelle sue riflessioni, quando lei uscì dal bagno e si avvicinò: “Ma come si è combinata?”

— Sei sorpreso? — domandò lei con tono autoritario.

Provò a rispondere ma gli uscì soltanto un mugolio strozzato, solo in quel momento si rese conto di avere del nastro sulla bocca. Non gli restò che annuire; la vide sorridere beffarda.

“Che cos’ha tra le mani?” si chiese l’uomo mentre metteva a fuoco uno strumento affusolato; non era certamente un dissuasore elettrico, ma aveva comunque un aspetto altrettanto minaccioso.

— Preoccupato?

Lui non annuì, ma sgranò significativamente gli occhi. La donna lo guardò come volesse mangiarselo, poi accarezzò l’oggetto metallico e lo passò lentamente attorno a uno dei suoi seni generosi, che sbucavano, come candide isole tropicali, fuori da un mare di latex nero.

— Puttana! Maledetta puttana! — gridò, ma in realtà dalla sua bocca uscì solo un mugolio.

Sentì un formicolio balordo arrampicarsi lungo le gambe: “Iniziano a mancarmi le forze... oppure è qualcosa di diverso?” si chiese dubbioso. La paura, quella sensazione proprio non l’aveva messa in conto; era sempre filato tutto liscio. Con le altre donne abbordate in quel locale, in fondo, se l’era cavata sempre bene, arrivati al dunque e capite le “buone” intenzioni, c’era stata la spiegazione e tutti a casa.

“Non può finire sempre tutto bene...” si disse, “ma nemmeno ci si può far fregare come dei novellini!” scosse la testa e chiuse gli occhi. Ripensò all’attimo dell’aggressione e gli tornò in testa un documentario sugli aracnidi visto a “Superquark”. La Vedova Nera adottava la stessa tattica; un attimo di disattenzione e con micidiale freddezza… zac! Punto, steso a terra e avvolto nella ragnatela.

Mentre lui pensava, lei non aveva perso tempo; la sua figura nera era distesa sul letto. La gomma lucida, aderente al corpo, la scolpiva e la rendeva voluttuosa e soda. Il colpo d’occhio era, paradossalmente, esaltante; il giocattolo tra le sue mani sembrava aver preso vita propria.

Lui allungò lo sguardo oltre il letto e si vide riflesso nello specchio dell’armadio; un metro e ottanta di peluria brizzolata, più concentrata al centro, dove il suo interesse per la scena che aveva davanti sembrò palesarsi come rispondesse a una coscienza completamente autonoma.

 “Sono impazzito… non è possibile, ma… cosa faccio?” si stupì.

Ora la donna s’era alzata e, morbida come una pantera, si stava avvicinando a lui. La osservò sbalordito e solo in quel momento notò che, sotto il petto, il latex nero aveva una figura a forma di clessidra color rosso fuoco; proprio come la Vedova Nera che aveva visto nel documentario: “Speriamo che non mi avveleni e si nutra di me succhiandomi” rifletté.

Sapeva benissimo che non correva questo rischio; i pivelli come lui, che erano finiti in quelle mani, avevano fatto ben altra fine: evirazione e castrazione completa. La vide puntargli contro lo strumento affusolato; il suo odore acre gli sferzò le narici.

— Lo vuoi? — chiese.

Lui agitò la testa in segno di diniego, lei abbassò lo strumento e lo fece scorrere lungo il suo torace, fino ad arrivare giù. Il suo corpo era attraversato da brividi profondi; un milione di supposizioni vorticarono nella sua testa: “Tempo! Ho bisogno di tempo!” si gridò dentro disperato. Doveva inventarsi qualcosa; appeso all’ultimo barlume di lucidità, spinse il bacino in avanti e mise in risalto ciò che aveva.

— Mi stai invitando? — chiese la donna eccitata.

Lui annuì e cercò, oltre il nastro, di emettere qualche suono che la convincesse ad approfittare di quella situazione così favorevole al suo diletto.

— Sei davvero un caso eccezionale... — constatò lei.

Ma la Vedova Nera non stava solo parlando, sembrava aver gradito l’offerta. Un’adrenalina incredibile gli esplose nel cervello: “Sto per morire; quando questa pazza sarà sazia io sarò un uomo morto” pensò; si sentiva come diviso in due metà. Poi la vide inarcarsi, sussultare… “Oddio! Ci siamo.”

Lei si allontanò, con un movimento lento, fece disgiungere le parti dello strano oggetto che ancora stringeva nelle mani. Come fosse un fodero, dal suo interno, comparve una lama; una grande lama affilata e luccicante. Alzò il pugnale sopra al suo corpo e si fermò.

“Non ho più chances, sto per morire! Sempre che questo rumore…” Non riuscì a finire il pensiero, che un boato assordante lacerò l’aria. Vide la porta della camera volare via come una pagliuzza al vento. Due carabinieri del Reparto Operativo Speciale, armi in pugno, irruppero nella stanza. Come se conoscessero già la situazione all’interno, localizzarono all’istante la Vedova Nera e la immobilizzarono.

Un secondo dopo entrò il capitano Panerai: longilinea, passo elegante… bellissima, soprattutto in divisa.

L’ufficiale si fermò di fronte a lui; con delicatezza tolse il nastro dalla sua bocca e disse: — Complimenti maresciallo Spada, è stato davvero sorprendente.

Lui guardò il suo capo… era stravolto: “Cosa significa - è stato davvero sorprendente -?” si ripeté la frase per capirne bene il senso.

Non ebbe il tempo di farle la domanda, che lei iniziò a spiegare.

— Dopo che ci ha inviato il messaggino col numero della stanza dove vi eravate appartati, ho predisposto l’intervento e con l’ausilio di una micro telecamera inserita sotto la porta, abbiamo osservato all’interno. Dopo aver acquisito le prove di colpevolezza, siamo intervenuti senza correre inutili rischi.

Spada osservò esterrefatto il suo capitano, era palese che si stesse trattenendo dalla voglia di strozzarla; tra l’altro non avrebbe potuto farlo, era ancora legato mani e piedi. Allora, superato l’imbarazzo per la condizione in cui era, affondò lo sguardo negli occhi neri di lei: gli occhi di una stupenda donna che si chiamava Dora Panerai. Il riflesso inconfondibile della sua complicità gli consegnò di nuovo tutta la dignità perduta.

A quel punto riuscì solo a dire: — Grazie capitano… un tempismo perfetto. — Lei sorrise maliziosa.

— Dopo questa sublime performance la potrei proporre al Reparto Operativo Speciale come agente undercover.

— No... Grazie tante, capitano; credo proprio di non essere portato per questi scherzi del cazzo.

— Da quello che ho potuto osservare non direi; comunque…

— Comunque? — domandò Spada stanco ma interessato.

— Comunque... la terrò qui con me — disse la donna iniziando a sciogliere i nodi che lo tenevano imprigionato.

— Grazie Dora — disse allora Spada rilassandosi; sentì le gambe sciogliersi come cubetti di ghiaccio e tutto svanì in uno sfondo nero.

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Giorgio Simoni nasce a Pomarance (Pisa) il 29/10/65, diplomato geometra, lavora come tecnico specialista in una grande azienda. Sposato con due figli risiede nel paese di nascita.
Dopo alcune esperienze letterarie orientate alla composizione di testi per canzoni – con le quali ha avuto la soddisfazione di essere pubblicato in raccolte di musica underground – da alcuni anni ha iniziato a scrivere racconti e romanzi. Per sfidare se stesso ha iniziato a partecipare a concorsi letterari, ottenendo lusinghieri risultati e numerose pubblicazioni. 
Per una analisi più approfondita sull’autore Simoni, si possono consultare i seguenti indirizzi web: http://blog.libero.it/GSimoni/ - http://digilander.libero.it/lutes/
 
 

Commenti

  1. Sì, proprio un bel racconto. FOrse non originalissimo, ma ha il pregio (enorme) di incuriosirti fino a fine lettura.
    Tamara.

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  2. Grazie Marco, mi complimento per il tuo lavoro. Grazie Tamara l'aggettivo tra parentesi mi è piaciuto.
    Ciao Giorgio

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  3. Be', è stato un piacere lavorare su un testo già buono.
    ;o)

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